Sono previste tre figure di reato speciale[1]:
· Violazione di leggi finanziarie costituenti delitto;
· Collusione con estranei per frodare la finanza;
· Appropriazione o distrazione, a profitto proprio o altrui, di valori o generi di cui il finanziere abbia la custodia o la sorveglianza per ragioni di servizio.
Questi illeciti, ferme restando le sanzioni pecuniarie previste, sono giudicati dai Tribunali militari e vengono sanzionati con le pene (reclusione da due a dieci anni e degradazione o rimozione dal grado) stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace.
La caratteristica di queste previsioni è che costituiscono delle varianti di altre fattispecie criminose già previste, in tutto o in parte, prevedendo un più severo trattamento sanzionatorio.
Rientrano nella prima ipotesi, ad esempio, condotte rientranti nel peculato e nella malversazione.
La seconda ipotesi delittuosa, dai contorni poco definiti, consiste in un accordo finalizzato a frodare la finanza che intervenga tra un soggetto non appartenente alla GdF ed un militare della stessa. Reato chiaramente plurisoggettivo dove abbiamo due soggetti attivi, un intraneus (appartenente al Corpo della Guardia di Finanza) ed uno extraneus (non appartenente al Corpo).
È sorto il dubbio circa la punibilità dell’extraneus.
Secondo la dottrina prevalente e la giurisprudenza minoritaria non sarà mai punibile in quanto reato necessariamente plurisoggettivo ove la norma incriminatrice non ha previsto la sua punibilità e non si può ricavare tale responsabilità dalla disciplina del concorso di persone nel reato in quanto inapplicabile ad una fattispecie a concorso necessario.
La Giurisprudenza militare invece ritiene punibile l’extraneus in quanto con la sua condotta concorre a realizzare quanto voluto dal concorrente militare e, tra l’altro, la portata generale dell’art. 110 c.p. può essere derogata solo da una espressa previsione speciale contenuta in un’altra norma, caso diverso da quello in esame.
Non è necessario che consegua l’attività delittuosa oggetto dell’accordo in quanto si tratta di un delitto a consumazione anticipata essendo, pertanto, sufficiente che vi sia l’accordo accompagnato dal dolo specifico richiesto.
La condotta di collusione consiste nel comportamento di chi si accorda segretamente con altri per compiere un’azione fraudolenta e lesiva di diritti di terzi o comunque illecita, indipendentemente dal risultato dell’accordo criminoso, mediante il tradimento della fiducia.
L’accordo deve avere ad oggetto circostanze ben definite o definibili e dipendenti dalla volontà degli agenti, non essendo sufficiente il riferimento ad eventi incerti ed indipendenti dalla loro volontà o comunque non controllabili dalle parti[2].
L’unanime giurisprudenza della Corte di cassazione[3] ritiene che vi sia concorso formale tra il reato di collusione e quello di corruzione, ma anche di concussione, in considerazione della diversa oggettività giuridica delle due figure in quanto il primo è preordinato alla tutela della regolarità delle entrate fiscali e finanziarie, oltre che dell’interesse alla disciplina del Corpo della Guardia di Finanza, mentre il secondo mira a proteggere il diverso interesse all’imparzialità amministrativa e si preoccupa di evitare che gli atti dei pubblici ufficiali siano oggetto di mercimonio. Inoltre, proprio perché reato a consumazione anticipata all’accordo collusivo, non può ritenersi assorbita la eventuale consumazione successiva dell’evento corruttivo.
Il termine “frodare la finanza”, quindi il complesso di norme tributarie e finanziarie, secondo la dottrina dominante, non permetterebbe di configurare il reato de quo nel caso in cui l’accordo abbia ad oggetto la commissione di una contravvenzione finanziaria in quanto il termine frode richiamerebbe il concetto di delitto.
La Giurisprudenza si è orientata in senso diametralmente opposto, ritenendo che la collusione possa avere ad oggetto qualunque frode della finanza pubblica, anche non costituente reato.
[1] art. 3 L. 1383/1941.
[2] Cass. Sez. I 7 luglio 1995, n.7614.
[3] v. anche Cass. pen., Sez.VI,29 ottobre 1992, n. 1350.