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Christian Petrina

Avv. Christian Petrina

Titolare 
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dirittomilitare@studiolegalepetrina.com

MOBBING IN AMBITO MILITARE

2020-04-08 13:32

Avv. Christian Petrina

Mobbing,

MOBBING IN AMBITO MILITARE

MOBBING IN AMBITO MILITARE

IL MOBBING  IN AMBITO MILITARE

 

In questa locuzione rientrano numerose condotte che hanno, tuttavia, ciascuna caratteristiche proprie, ma comunque accomunate dalle conseguenze che producono sulla vittima.

Si tratta di una serie di condotte poste in essere da colleghi, superiori che, qualora non abbiano il carattere della sistematicità essendo solo sporadiche ed episodiche saranno terminologicamente definite straining[1], mentre quando sono poste in essere da uno o più superiori gerarchici della vittima si parla di bossing.

È un fenomeno che in ambito militare presenta alcune peculiarità rispetto al pubblico impiego in genere dovute alle caratteristiche proprie dei rapporti gerarchici, delle sanzioni previste e del cd. fenomeno del nonnismo, purtroppo sempre presente anche al giorno d’oggi.

Partendo da quest’ultima realtà che viene definita nella letteratura psicologica militare come un sopruso posto in essere da uno o più soggetti nei confronti di una o più vittime che si trovino in uno stato di soggezione fisica o gerarchica la finalità dell’agente non è quella di escludere la vittima, ma di piegarla, costringendola ad accettare determinate regole di convivenza.

Non è previsto in astratto come figura di reato, ma occorre valutare caso per caso.

Ad esempio, in Aeronautica Militare vi è l’uso di bagnare il pilota che ha preso il primo brevetto e di baciare un pinguino di pietra, simboleggiante un uccello che non vola.

Ebbene, nel caso in cui il soggetto esprima in modo chiaro ed inequivocabile di non voler essere sottoposto a tale rito iniziatico, ma nonostante ciò lo subisca, gli autori potranno rispondere del reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p.

In genere, deve ritenersi essere al di fuori di condotte meramente goliardiche nel momento in cui si trascende in azioni diffamatorie, ingiuriose o comunque lesive dell’altrui dignità ed onore, come nel caso di un superiore che nel richiamare un militare che ha commesso un errore lo ingiuri ripetutamente; risponderà del reato militare di ingiuria ad un inferiore attenuata da un eccesso di zelo.

Qui è importante sottolineare che dal punto di vista risarcitorio il Ministero della Difesa sarà chiamato a rispondere in solido con l’autore dell’illecito[2].

Vi sarà una responsabilità ex art. 2043 da parte dell’agente ed una ex art. 2049 a carico dell’amministrazione.

In altri termini, la domanda risarcitoria va rivolta sia nei confronti del soggetto agente che del Ministero.

Un altro comportamento da tenere in considerazione, anche se non qualificabile propriamente come mobbing, è quello consistente in una azione indesiderata avente lo scopo di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante, degradante od offensivo, la cd. molestia, per richiamare la definizione data dal codice delle pari opportunità[3].

Si parla di scopo e non di effetto, quindi la responsabilità prescinderà da quest’ultimo requisito ed avrà sia natura disciplinare ex art. 732 TUOM (contegno del militare), ma anche penale, sia militare (lesioni, ingiurie) che ordinario (violenza privata).

In questo specifico caso, alle responsabilità anzidette si aggiunge quella del comandante di corpo[4]in quanto le molestie danneggiano non solo la persona dal punto di vista fisico, ma anche morale, danni che il datore di lavoro è obbligato ad evitare ai sensi dell’art. 2087 del codice civile., essendo suo preciso obbligo, qualora a conoscenza di episodi in tal senso, di attivarsi immediatamente per evitare la ripetizione delle condotte.[5]

Importante evidenziare che sarà onere del datore di lavoro provare di aver adottato tutte le misure atte ad evitare il mobbing.[6]

Parlando di mobbing in senso stretto, termine qualificato oramai a livello giurisprudenziale[7], si può definire come una serie di comportamenti di carattere persecutorio, anche leciti, posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o da parte anche di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi, causalmente collegate al pregiudizio subito dalla vittima che ha comportato un evento lesivo della saluta, personalità o dignità del lavoratore, il tutto accompagnato dell’elemento soggettivo che è la coscienza e volontà di perseguitare la vittima e che deve ricomprendere tutti gli eventi lesivi.

Ecco una prima differenza con le molestie in quanto queste sono sempre illecite, mentre le condotte mobbizzanti lo diventano quando nel loro complesso sono accompagnate dall’intento persecutorio e lesivo in quanto ben potrebbero essere considerate lecite se sganciate da questo e prese singolarmente.

Quindi, come afferma la giurisprudenza maggioritaria, è necessario il dolo per configurare il mobbing, mentre pronunce minoritarie, accompagnate da parte della dottrina ritengono che sia sufficiente anche la colpa.

In merito alle pronunce maggioritarie, occorre evidenziare che in qualcuna si afferma che il dolo del cd. mobber dovrebbe avere ad oggetto anche la volontà di allontanare o quantomeno emarginare la vittima dal luogo di lavoro.[8]

Una interessante pronuncia giurisprudenziale[9]ha stabilito che non vi sia mobbing qualora vi sia una spiegazione alternativa dei comportamenti leciti posti in essere.

Il grosso problema è che manca in ambito civilistico una definizione del nesso causale che dalla giurisprudenza viene ricollegata a quanto recita l’art. 41 c.p.

Vi sarà nesso causale quando l’evento, secondo le regole di esperienza di un determinato contesto storico è conseguenza certa o altamente probabile dell’azione, quindi occorre valutare l’idoneità della condotta a provocare gli effetti del caso.

A questo punto sorge spontaneo chiedersi come fare a dimostrarlo, premettendo che l’onere della prova spetta al soggetto che si dichiara mobbizzato il cui compito sarà tutt’altro che semplice, atteso che, ricordiamo, le condotte potrebbero essere, al fuori del contesto mobbizzante da provare, perfettamente legittime.

Tanto più in ambiente militare dove anche la giurisprudenza riconosce che sia fisiologico riscontrare un clima di conflittualità fra subordinati e superiori gerarchici[10], derivante proprio dalla diversità dei ruoli.

Ebbene, occorrerà innanzitutto una apposita perizia medico-legale che certificherà in primo luogo l’esistenza di una condizione psicopatologica ed il nesso causale tra questa e le azioni vessatorie. Vanno ovviamente escluse concause di natura genetica e quindi preesistenti all’evento dannoso.[11]

Anche l’amministrazione, ovviamente, potrà provare l’esatto contrario attraverso apposita visita in CMO alla quale il militare non potrà sottrarsi.

Il danno da mobbing potrà consistere in una lesione psicofisica, ma anche in una deminutio della capacità integrativa sul posto di lavoro o sociale in genere.

Dopo aver esaminato le regole generali del mobbing, valevoli per l’ambiente lavorativo in genere, volendo adesso proiettarci sul piano militare in senso stretto, possiamo notare che qui manca una disciplina sia essa di legge o regolamento per cui dobbiamo fare riferimento al c.o.m. ed alla giurisprudenza.

Allora potrà considerarsi tale una pluralità di trasferimenti in sedi disagiate, un reiterato rifiuto di accogliere richieste di colloqui gerarchici od anche improvvise ed immotivate declinazioni delle valutazioni caratteristiche che contrastano ad esempio con gli ottimi risultato ottenuti dal soggetto, o i continui richiami disciplinare per futili motivi per condotte che in altri casi non siano state oggetto di biasimo.

Normalmente non è ravvisabile il mobbing nel caso di trasferimento per incompatibilità ambientale in quanto strumento legittimo previsto a tutela della amministrazione medesima, così come non appare mobbizzante un trasferimento d’autorità successivo ad una punizione disciplinare non esigua[12].

Per quanto riguarda la normativa applicabile occorre fare un lavoro di tipo analogico,

L’artr. 725, comma 2 lett.a) T.U.O.M. prevede che “il superiore deve rispettare nei rapporti con gli inferiori la pari dignità di tutti e informare sempre le proprie valutazioni a criteri di obiettività e giustizia” per cui, occorre una analogia con l’opinione giurisprudenziale e dottrinaria che il mobbing sia anche una violazione dell’obbligo di garantire sicurezza e protezione ai propri dipendenti a carico del datore di lavoro secondo il disposto dell’art. 2087 cc.

In ambito militare avremo quindi una doppia responsabilità, oggettiva ed in senso verticale, perché una sarà del comandante di corpo di natura datoriale e l’altra si ravviserà in capo al diretto superiore della vittima per culpa in vigilando o negligendo, se non vi sia dolo, e quindi non sarà una responsabilità oggettiva come nel primo caso.

In particolare, risponderà ai sensi dell’art.751 comma 1 n.18 che prevede la consegna di rigore in caso di negligenza nel governo del personale e del suo benessere, oltre a risponderne penalmente a titolo di concorso ove ravvisabile un reato e la partecipazione concorsuale.

In questo caso avremo una responsabilità contrattuale diversamente da quella che avrà l’autore delle condotte.

Per poter azionare le proprie pretese in ambito giudiziario, in ambito militare non vale la regola per cui si devolve al giudice ordinario le controversie di lavoro dei dipendenti della P.A.[13], bensì, quantomeno nel caso in cui si ritenga vi sia responsabilità dell’amministrazione, cd mobbing verticale, quindi responsabilità contrattuale derivante da un contratto di diritto pubblico non privatizzato, la competenza sarà del giudice amministrativo, così come anche nel caso di mobbing derivante da atti di gestione del lavoro militare come ordini o trasferimenti, demansionamenti[14] quindi riconducibili all’esercizio dei poteri gestionali derivanti dalla linea gerarchica, così come nel caso di culpa in vigilando da parte dell’amministrazione.[15]

Invece, nel caso di mobbing orizzontale (superiore o collega) o condotte estranee alla gestione del personale che abbiamo visto poc’anzi, siccome vi sarà un danno di natura extracontrattuale la competenza sarà del giudice ordinario.

In altri termini, in caso di responsabilità extracontrattuale, quindi svincolata da precisi obblighi derivanti dal contratto di diritto pubblico non privatizzato, la competenza sarà del giudice ordinario.

In caso di compresenza di entrambi i tipi di responsabilità la giurisdizione amministrativa attrae quella ordinaria.

Se viene accertata la sussistenza di un danno derivante da mobbing, in primo luogo risponde patrimonialmente il Ministero della Difesa e si potrà configurare una responsabilità amministrativo-contabile per danno erariale a carico del mobber che per difendersi validamente nel giudizio contabile dovrà dimostrare che la sua condotta è stata causata da colpa, ma non talmente grave da configurare responsabilità da danno erariale, ricordando, infatti, che la sentenza del giudice ordinario o amministrativo, per quanto importante per dimostrare molti elementi (condotta, danno alla vittima) non vincola la decisione del giudice contabile.

 

 

 

[1] Cass. Civ., sez. lav. Ord. n. 3977 del 19 febbraio 2018;

[2] Cass. Civ., sez. III 26 febbraio 2013, n. 4809;

[3] Art. 26 D.lgs. 198/2006

[4] Cass., sez. lav., 8 gennaio 2000, n. 143;

[5] Cass. Civ., sez.lav., 16 maggio 2017, n. 12110;

[6] Cass. Sez.lav., 29 gennaio 2013, n.2038;

[7] Cass civ., sez. lav., 20 febbraio 2017, n. 30606;

[8] Cass. Sez.un., 4 maggio 2004, n. 8438;

[9] Cons.Stato, sez VI, 1 ottobre 2008, n. 4738;

[10] TAR Lombardia, 2 febbraio 2018, n. 310;

[11] Cass. Civ., sez.lav., 5 febbraio 2000, n.1307;

[12] TAR Umbria, 10 gennaio 201, n. 201;

[13] art. 63 D.lgs 165/2001;

[14] Cons. Stato, sez.VI, 20 giugno 2012, n. 3584;

[15] TAR Abruzzo, sez.I, 23 marzo 2007, n. 339;

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